« Dottor Carucci… C’è un altro caso ».
« Ne è sicura? »
« Temo proprio di sì. I sintomi sono inconfondibili: accelerazione del battito cardiaco, rossore, dolori alla pancia, alternanza di momenti euforici ad altri di depressione, una leggera febbre, attacchi di nervosismo, crisi di nervi, pianti incontrollati, attimi di apatia, mancanza di appetito… Si possono addirittura scorgere dei lividi a livello cutaneo, sembra che non ci siano proprio dubbi ».
Mi tolsi gli occhiali, li appoggiai lentamente sulla scrivania e mi sfregai gli occhi con le dita molto lentamente, quasi dolorante. « Non è possibile, sono troppi. Sono troppi i malati e troppo poche le cure, non riusciremo mai a far guarire tutti i pazienti ».
L’infermiera si morse un labbro, senza sapere cosa rispondere; si limitò a poggiare una cartella sopra alla scrivania – l’ennesimo plico dell’ennesimo paziente – e uscì, fermandosi sulla porta solo per dire poche parole. « Il nuovo caso comunque è una ragazza, la trova nella stanza 208. La sta aspettando ».
Ci misi qualche istante per decidermi ad avviarmi nella camera della nuova degente. Che cosa avrei potuto dire ancora? Ripetere sempre le stesse parole in continuazione, regalare speranza per persone che probabilmente non sarebbero riuscite a uscire da quella devastante malattia… Era a dir poco straziante tutta quella situazione.
Aprii preoccupato il plico appena poggiato sulla scrivania, scorsi il nome – una certa Giulia Lucati – e l’età: diciassette anni appena compiuti. Mi si strinse un nodo alla gola leggendo quel numero: ormai erano sempre più giovani i malati.
Decisi di farmi forza (per la terza volta in quella giornata) e mi avviai nella stanza 208, ripetendomi mentalmente il discorso che avrei dovuto affrontare – come se non l’avessi per davvero pronunciato per una media di quattro volte al giorno negli ultimi sei mesi.
Aprii la porta della camera e mi trovai davanti ad una ragazza con i capelli castani e gli occhi azzurri, un po’ mingherlina e palliduccia, che mi guardò preoccupata. Era una bella ragazza, ancora ignara di ciò che la stava uccidendo; avrei voluto fuggire via per non essere davvero io a rivelarle il guaio della sua condizione.
« Giulia, giusto? »
« Sì » tremò appena.
Mi avvicinai al letto e mi sedetti sulla sedia solitamente riservata ai parenti. Stavo osservando le pareti della stanza – così bianche, così vuote, così pure e pronte a contenere la realtà di un morbo così devastante – cercando le parole con cui iniziare, quando Giulia mi scosse dal torpore anticipandomi.
« Che cos’ho? È grave? »
« Grave… non sai quanto » riposi debolmente, continuando imperterrito a guardare altrove. « Sei malata, Giulia ».
Mi parve sentire il cuore della ragazza per un momento fermarsi a sentire quelle parole, ma cercò comunque di dissimulare la tensione. « Di cosa? »
Passarono parecchi istanti prima che mi decidessi a rispondere. Era sempre una sensazione orribile la consapevolezza di dover dare la sentenza a qualcuno, specialmente se si trattava di una ragazza così giovane e innocente come sembrava essere lei.
« D’amore, Giulia. D’amore ».
Giulia sgranò gli occhi, incredula. « Non può essere possibile, sono stata attenta, ho seguito tutte le precauzioni che continuano a elencare durante gli spot pubblicitari di prevenzione… Non posso aver contratto questa temibile malattia ». Parlava agitatamente, colta dal panico. « Ne… ne è proprio sicuro? »
« Purtroppo sì, tutti i sintomi combaciano » sospirai. Sempre le stesse reazioni mi ritrovavo ad affrontare: il rifiuto iniziale del paziente, tutti dicevano che erano stati attenti. Come se tutti quegli spot pubblicitari potessero dare veramente dei metodi di prevenzione per non contrarre quella malattia!
« E… quanto durerà? » Alla televisione glissavano sempre su questo particolare, molto probabilmente per non mettere in allarme più del dovuto la popolazione.
Con la voce stanca e triste mi preparai a riversare tutta la verità su Giulia, prendendo un grosso respiro. « E chi può dirlo. Potrebbe durare solo alcuni giorni, settimane, mesi, anni, per tutta la vita. Nessuno può prevedere la durata della malattia d’amore, possiamo solo dire che quando ci entri non è così scontato che tu possa uscirne. E anche se sei talmente fortunata da guarire, potresti riportare dei seri danni nella tua vita futura. È una malattia così imprevedibile… » Mi passai una mano tra i capelli, ripensando a quanti malati affetti da quella patologia avevo visto in condizioni pietose, disperati, urlanti, mentre pregavano e invocavano pietà – inutilmente.
« Non c’è una cura? » Notai con rammarico il tono d’urgenza che la voce di Giulia stava assumendo.
« Ce n’è una, ma è così difficile, mia cara… L’unica speranza è trovare qualcuno che sia malato d’amore quanto te, che voglia guarirti e che voglia guarire grazie a te. Ma è una cosa più unica che rara, la maggior parte degli ammalati non iniziano nemmeno a sperarci, ormai. In questo mondo ci sono tantissime persone che soffrono d’amore, ma nessuno vuole guarire. Nessuno si rende conto che potrebbe benissimo togliersi tutto l’affanno, tutte le preoccupazioni che questo morbo procura guardandosi attorno e scorgendo qualcuno da amare… Oh, no, la gente pensa solo che quando è malata niente la possa guarire definitivamente ». I pensieri ormai stavano divagando sulla mia esperienza personale, e mi costrinsi a mettere un freno ai ricordi: il mal d’amore, in passato, aveva devastato persino la mia vita, e uscirne era stata probabilmente la cosa più difficile che avessi mai fatto. « Vedi, quando ti ammali d’amore sei convinto che l’amore stesso possa essere la tua unica soluzione per ritornare a stare bene, ma non è così. Dovresti cominciare a lottare contro di esso e cercare qualcuno che abbia così tanta forza come te che voglia accompagnarti in questa battaglia… Ma nessuno lo vuole veramente fare » conclusi, abbassando lo sguardo.
« Ma io voglio guarire! » Giulia era ormai in lacrime.
« Lo so » sospirai tristemente. E tra me e me aggiunsi: dicono tutti così.
« Quindi che cosa posso fare? »
Ognuno faceva sempre la stessa domanda. Perché? Perché farsi del male da soli ponendo un quesito che, sapevano bene, non portava risposta? Perché non arrendersi, perché semplicemente non normalizzare i battiti del cuore e cominciare a lottare con le proprie forze? Tutti cercavano sempre di sentirsi dire la lista delle cose da fare per stare meglio… ma non capivano che nessun dottore avrebbe mai potuto farlo. Ogni caso era singolare e a se stante, per ognuno di loro servivano delle leggi diverse, delle attenzioni diverse. Non c’era risposta al grande quesito, e proprio per questo avevo solo una parola in serbo per Giulia, che pronunciai con delicatezza, mentre piccole gocce d’acqua cominciavano a rigarle le guance ceree.
« Sperare ».
« Ne è sicura? »
« Temo proprio di sì. I sintomi sono inconfondibili: accelerazione del battito cardiaco, rossore, dolori alla pancia, alternanza di momenti euforici ad altri di depressione, una leggera febbre, attacchi di nervosismo, crisi di nervi, pianti incontrollati, attimi di apatia, mancanza di appetito… Si possono addirittura scorgere dei lividi a livello cutaneo, sembra che non ci siano proprio dubbi ».
Mi tolsi gli occhiali, li appoggiai lentamente sulla scrivania e mi sfregai gli occhi con le dita molto lentamente, quasi dolorante. « Non è possibile, sono troppi. Sono troppi i malati e troppo poche le cure, non riusciremo mai a far guarire tutti i pazienti ».
L’infermiera si morse un labbro, senza sapere cosa rispondere; si limitò a poggiare una cartella sopra alla scrivania – l’ennesimo plico dell’ennesimo paziente – e uscì, fermandosi sulla porta solo per dire poche parole. « Il nuovo caso comunque è una ragazza, la trova nella stanza 208. La sta aspettando ».
Ci misi qualche istante per decidermi ad avviarmi nella camera della nuova degente. Che cosa avrei potuto dire ancora? Ripetere sempre le stesse parole in continuazione, regalare speranza per persone che probabilmente non sarebbero riuscite a uscire da quella devastante malattia… Era a dir poco straziante tutta quella situazione.
Aprii preoccupato il plico appena poggiato sulla scrivania, scorsi il nome – una certa Giulia Lucati – e l’età: diciassette anni appena compiuti. Mi si strinse un nodo alla gola leggendo quel numero: ormai erano sempre più giovani i malati.
Decisi di farmi forza (per la terza volta in quella giornata) e mi avviai nella stanza 208, ripetendomi mentalmente il discorso che avrei dovuto affrontare – come se non l’avessi per davvero pronunciato per una media di quattro volte al giorno negli ultimi sei mesi.
Aprii la porta della camera e mi trovai davanti ad una ragazza con i capelli castani e gli occhi azzurri, un po’ mingherlina e palliduccia, che mi guardò preoccupata. Era una bella ragazza, ancora ignara di ciò che la stava uccidendo; avrei voluto fuggire via per non essere davvero io a rivelarle il guaio della sua condizione.
« Giulia, giusto? »
« Sì » tremò appena.
Mi avvicinai al letto e mi sedetti sulla sedia solitamente riservata ai parenti. Stavo osservando le pareti della stanza – così bianche, così vuote, così pure e pronte a contenere la realtà di un morbo così devastante – cercando le parole con cui iniziare, quando Giulia mi scosse dal torpore anticipandomi.
« Che cos’ho? È grave? »
« Grave… non sai quanto » riposi debolmente, continuando imperterrito a guardare altrove. « Sei malata, Giulia ».
Mi parve sentire il cuore della ragazza per un momento fermarsi a sentire quelle parole, ma cercò comunque di dissimulare la tensione. « Di cosa? »
Passarono parecchi istanti prima che mi decidessi a rispondere. Era sempre una sensazione orribile la consapevolezza di dover dare la sentenza a qualcuno, specialmente se si trattava di una ragazza così giovane e innocente come sembrava essere lei.
« D’amore, Giulia. D’amore ».
Giulia sgranò gli occhi, incredula. « Non può essere possibile, sono stata attenta, ho seguito tutte le precauzioni che continuano a elencare durante gli spot pubblicitari di prevenzione… Non posso aver contratto questa temibile malattia ». Parlava agitatamente, colta dal panico. « Ne… ne è proprio sicuro? »
« Purtroppo sì, tutti i sintomi combaciano » sospirai. Sempre le stesse reazioni mi ritrovavo ad affrontare: il rifiuto iniziale del paziente, tutti dicevano che erano stati attenti. Come se tutti quegli spot pubblicitari potessero dare veramente dei metodi di prevenzione per non contrarre quella malattia!
« E… quanto durerà? » Alla televisione glissavano sempre su questo particolare, molto probabilmente per non mettere in allarme più del dovuto la popolazione.
Con la voce stanca e triste mi preparai a riversare tutta la verità su Giulia, prendendo un grosso respiro. « E chi può dirlo. Potrebbe durare solo alcuni giorni, settimane, mesi, anni, per tutta la vita. Nessuno può prevedere la durata della malattia d’amore, possiamo solo dire che quando ci entri non è così scontato che tu possa uscirne. E anche se sei talmente fortunata da guarire, potresti riportare dei seri danni nella tua vita futura. È una malattia così imprevedibile… » Mi passai una mano tra i capelli, ripensando a quanti malati affetti da quella patologia avevo visto in condizioni pietose, disperati, urlanti, mentre pregavano e invocavano pietà – inutilmente.
« Non c’è una cura? » Notai con rammarico il tono d’urgenza che la voce di Giulia stava assumendo.
« Ce n’è una, ma è così difficile, mia cara… L’unica speranza è trovare qualcuno che sia malato d’amore quanto te, che voglia guarirti e che voglia guarire grazie a te. Ma è una cosa più unica che rara, la maggior parte degli ammalati non iniziano nemmeno a sperarci, ormai. In questo mondo ci sono tantissime persone che soffrono d’amore, ma nessuno vuole guarire. Nessuno si rende conto che potrebbe benissimo togliersi tutto l’affanno, tutte le preoccupazioni che questo morbo procura guardandosi attorno e scorgendo qualcuno da amare… Oh, no, la gente pensa solo che quando è malata niente la possa guarire definitivamente ». I pensieri ormai stavano divagando sulla mia esperienza personale, e mi costrinsi a mettere un freno ai ricordi: il mal d’amore, in passato, aveva devastato persino la mia vita, e uscirne era stata probabilmente la cosa più difficile che avessi mai fatto. « Vedi, quando ti ammali d’amore sei convinto che l’amore stesso possa essere la tua unica soluzione per ritornare a stare bene, ma non è così. Dovresti cominciare a lottare contro di esso e cercare qualcuno che abbia così tanta forza come te che voglia accompagnarti in questa battaglia… Ma nessuno lo vuole veramente fare » conclusi, abbassando lo sguardo.
« Ma io voglio guarire! » Giulia era ormai in lacrime.
« Lo so » sospirai tristemente. E tra me e me aggiunsi: dicono tutti così.
Ognuno faceva sempre la stessa domanda. Perché? Perché farsi del male da soli ponendo un quesito che, sapevano bene, non portava risposta? Perché non arrendersi, perché semplicemente non normalizzare i battiti del cuore e cominciare a lottare con le proprie forze? Tutti cercavano sempre di sentirsi dire la lista delle cose da fare per stare meglio… ma non capivano che nessun dottore avrebbe mai potuto farlo. Ogni caso era singolare e a se stante, per ognuno di loro servivano delle leggi diverse, delle attenzioni diverse. Non c’era risposta al grande quesito, e proprio per questo avevo solo una parola in serbo per Giulia, che pronunciai con delicatezza, mentre piccole gocce d’acqua cominciavano a rigarle le guance ceree.
« Sperare ».
Niente Destiny, questa volta un semplice racconto made by me.
Lo pubblico perché era iniziato come uno scherzo, ma alla fine è stato riempito di significati ben più profondi di quanto avessi programmato.
Guarire? Per me è così difficile! Anche se ogni giorno continuo a sperare di trovare la mia cura. E voi? Che cosa ne pensate?
Un abbraccio, a presto,
Erica.
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